Quanto sono coerenti con l’idea di ecologia e sostenibilità ortaggi che hanno attraversato
l’Europa da nord a sud o che arrivano dal nord Africa fino a Milano? E che dire delle banane bio che hanno addirittura
superato l’oceano?In realtà, per essere fedele ai principi ispiratori dell’agricoltura organica, chi preferisce acquistare prodotti bio dovrebbe semplicemente rinunciare a mangiare pomodori a gennaio e portare in tavola broccoli, cavolfiori e finocchi. Senza farsi allettare da verdure proprie della bella stagione che arrivano da molto lontano.
Peccatuccio
veniale? Può darsi: da
noi il bio, pure in crescita negli ultimi anni di pari passo con una
maggiore
consapevolezza verso le tematiche ambientali, resta un settore di
nicchia. Non così altrove, però, dove è in esplosione. Nei paesi
anglosassoni, per esempio, esiste la
grande catena di supermercati Whole Foods, leader mondiale del commercio al dettaglio
nel settore, con oltre 310 punti vendita in Usa, Canada e Regno Unito.Supermercati davvero spettacolari, per la qualità e l’abbondanza dei prodotti freschi. Con scelte dei generi sugli scaffali molto rigorose: a chi scrive, per esempio, è capitato di sentirsi dire che «Whole Foods non vende integratori per la salute che contengono ingredienti ricavati da specie animali a rischio di estinzione». E allora: che succede dove il bio è un settore "pesante" nella borsa della spesa dei consumatori?
Qualche giorno fa, David Agren in un articolo sul New York Times del 30 dicembre, ha fatto ponderate riflessioni sul tema del boom del biologico e la coerenza con i principi ispiratori, intitolato “L’agricoltura bio forse sta perdendo di vista i suoi ideali”.
Il giornalista parte proprio dai pomodori bio, il prodotto che forse più di altri fa pensare all’estate, al sole, al caldo, ma che ormai siamo abituati a trovare in ogni stagione.
Il problema è che a gennaio nei supermercati
americani i pomodori, i peperoni e il basilico certificati come bio dal
Dipartimento dell’agricoltura spesso arrivano dal deserto messicano e sono
coltivati con sistemi di irrigazione intensiva. I coltivatori della Baja California, cuore dell’export bio, descrivono la loro fatica tra i cactus come “piantumare la spiaggia”. Per dare un’idea dei numeri, la cooperativa Del Cabo ogni giorno manda negli Usa sette tonnellate e mezzo di pomodori e basilico con aerei e camion, per soddisfare la domanda di prodotti bio in ogni stagione dell’anno.
Insomma:
anche
se l’etichetta dice “bio”, il concetto di prodotto non solo privo di
sostanze chimiche, ma anche cresciuto localmente da piccoli produttori e
nel
rispetto dell’ambiente, è un po’ perso. Paradossalmente proprio perché
il bio ha sempre più successo tra gli
americani: l'enorme aumento della domanda di alimenti più sani o meno
contaminati, che oltretutto non tiene conto della stagionalità, sta
facendo crescere sì l'offerta, ma a scapito di quelli che dovrebbero
essere i postulati dell'agricoltura organica, per sua natura "piccola".
Così, in Messico - insieme al Cile e all'Argentina il principale fornitore per il mercato bio Usa - la crescita esplosiva della coltivazione di pomodori biologici sta mettendo a rischio la falda acquifera. In alcune zone, i pozzi sono a secco e questo vuol dire che i piccoli coltivatori non possono irrigare i raccolti.
Non solo: gli stessi pomodori finiscono in una catena distributiva globale per arrivare fino a New York, ma anche a Dubai, producendo emissioni che contribuiscono non poco al riscaldamento globale del pianeta.
Secondo Frederick L. Kirschenmann, del Leopold Center for Sustainable Agriculture dell’Università dell’Iowa, «i consumatori devono dubitare anche di fronte
all’etichetta ‘bio’ perché di per sé non è
sufficiente per essere davvero informati». Alcuni grandi marchi qualificano
come bio anche prodotti ottenuti con pratiche che sono dannose per
l’ambiente, come la monocoltura, che impoverisce i suoli, o, appunto,
l’ipersfruttamento delle risorse locali di acqua. Per potersi fregiare del marchio biologico del Dipartimento dell'Agricoltura, le aziende agricole negli Stati Uniti e all'estero devono essere conformi a una lunga lista di standard che, per esempio, proibiscono l'uso di fertilizzanti sintetici, pesticidi e fitormoni. Ma sono pochi i requisiti che riguardano la sostenibilità ambientale, anche se la legge (che risale al 1990) ha previsto standard che dovrebbero proprio promuovere l’equilibrio ecologico, la biodiversità e la salvaguardia della ricchezza dei suoli e delle risorse idriche.
Gli esperti ritengono che
in genere le aziende agricole bio tendono a essere meno dannose per l'ambiente
rispetto a quelle convenzionali. Ma se nel passato «agricoltura biologica e
agricoltura sostenibile coincidevano, ora non è sempre così», ha detto al New
York Times Michael Bomford, ricercatore della Kentucky State University. Aggiungendo
che il boom dell’agricoltura bio sta creando
problemi anche alle falde acquifere della California.Qualche ripensamento è già in atto: per esempio, Krav, il più importante organismo svedese di certificazione bio, concede il marchio solo se i prodotti sono coltivati in serre utilizzano almeno l’80 % di energia da fonti rinnovabili. E l'anno scorso il Consiglio nazionale per il settore bio del Dipartimento dell'Agricoltura ha rivisto la normativa, stabilendo che il latte può essere certificato solo se le vacche sono almeno in parte alimentate in pascoli aperti e non solo nei recinti.
Come è ovvio però, ogni tentativo di precisare meglio la definizione di “biologico” comporta inevitabili tira e molla tra
agricoltori, produttori di generi alimentari,
supermercati e ambientalisti. Così, per esempio, secondo Miles McEvoy, capo del Programma nazionale biologico del Dipartimento dell’agricoltura, «è difficile stabilire a priori
quale sia il livello sostenibile di sfruttamento di una falda acquifera per una
singola azienda, perché l’ipersfruttamento è comunque il risultato dell’utilizzo
combinato di più produttori». Mentre una volta l'ideale era mangiare solo prodotti locali e di stagione, oggi i consumatori che acquistano gli alimenti bio nelle grandi catene di supermercati americane si aspettano di trovare pomodori a dicembre e sono molto sensibili ai prezzi. Due fattori che incrementano le importazioni. Poche aree degli Stati Uniti possono produrre bio senza ricorrere a serre ad alto consumo energetico. Quanto al costo della manodopera, se un messicano di Baja California prende 10 dollari al giorno per raccogliere pomodori, un raccoglitore della Florida in alta stagione può arrivare a 80 dollari.
Molti coltivatori
attribuiscono la scarsità d’acqua allo sviluppo turistico (alberghi e campi da
golf), e in effetti questo è stato
uno dei maggiori problemi per le zone costiere del Messico. Ma anche
l'agricoltura comporta un dispendio significativo di risorse. Per esempio, secondo uno studio
durato un anno ad Ojos Negros, un'area del nord della Baja California, il boom delle piantagioni di
cipolle bio destinate all’esportazione, cominciato un decennio fa, ha abbassato la
falda acquifera di circa 40 cm all’anno. La logistica nell’ottenere acqua e trasportare grandi volumi di prodotti deperibili favorisce inevitabilmente le grandi aziende agricole. E mentre per i produttori bio tradizionali frutta e verdura dalla forma insolita o con macchie sono solo varianti della natura, i lavoratori delle aziende agricole su vasta scala hanno ricevuto istruzioni di scartare i pomodori che non rispettano la forma, le dimensioni e le caratteristiche estetiche preferite dai clienti di Whole Foods. Questi prodotti di “seconda scelta” finiscono poi sui mercati locali.
Ma, allora, ha ancora senso parlare di frutta & verdura bio?
Tratto da: http://www.ilfattoalimentare.it
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